I Prigionieri o Schiavi di Michelangelo
La fama di queste quattro imponenti statue è dovuta soprattutto al suggestivo e potente stato incompiuto. I nomi delle quattro sculture vennero stabiliti solo nell’Ottocento, in base alla posa assunta dalla figura maschile abbozzata da Michelangelo in ciascuno dei blocchi di marmo. Lungo il corridoio del museo si possono ammirare oggi “Lo Schiavo giovane”, lo “Schiavo che si desta”, lo “Schiavo barbuto” e “Atlante”, databili in un periodo compreso fra il 1519 ed il 1534 circa. Ognuno di essi è un esempio della pratica di Michelangelo detta “non-finito”, stato dal quale si puo’ percepire il difficile e lungo percorso esecutivo della scultura attraverso i segni di scalpello sulla superficie. C’è un senso di tensione, di movimento impresso dall’accentuata torsione: questa lotta esprime in Michelangelo una sorta di analogia simbolica fra la figura che tenta di fuoriuscire dal marmo e lo spirito che cerca di liberarsi dalla carne per anelare a Dio.
Le quattro figure di nudo maschile si presentano in vario stadio esecutivo seguendo l’impostazione classica del contrapposto: poggiano il peso su una gamba, contorcendosi in varie pose del busto e delle spalle. Ogni blocco mostra una solida muscolatura delle braccia e delle gambe abbozzati in modo dinamico e potente, traccia concreta della profonda passione che Michelangelo nutriva per l’anatomia umana. La conoscenza minuziosa dei dettagli era infatti stata affinata grazie alla possibilità di dissezionare cadaveri presso i frati agostiniani di Firenze negli anni ’90 del Quattrocento. Tale conoscenza si rivelerà in tutta la sua perfezione con la realizzazione del David (1504) e nei minuziosi disegni preparatori per molte delle opere successive.
Michelangelo scultore: il non finito e la teoria dello specchio d’acqua
La lunga carriera di Michelangelo ha prodotto alcune delle opere artistiche più mirabili mai concepite nel Rinascimento. Molte di esse sono state lasciate incompiute o non-finite per diversi motivi legati a vicende storiche o private, rapporti con le committenze ed impegni sovrapposti dell’artista. Le statue non-finite di della Galleria dell’Accademia rivelano preziose indicazioni su come il Maestro intendeva la scultura e sui possibili significati metaforici che potevano essere trasmessi dalle sue opere. Michelangelo era fermamente convinto che lo scultore fosse uno strumento di Dio, il cui compito era quello di liberare le figure già contenute nella pietra, sbozzando la materia con vigore per liberare il soggetto in tutta la sua energia. Dalle cronache biografiche riportate dal Condivi e da Vasari sul Maestro, emerge che Michelangelo lavorava ininterrottamente per giorni e giorni quando lo spirito creativo si impossessava di lui. Poteva non dormire per giorni, o calzare gli stessi panni e stivali per molto tempo. Non era solito creare grandi calchi preparatori, solo qualche bozzetto, prima di affrontare la nuda pietra con scalpello o subbia. Vasari descrive in modo affascinante come Michelangelo cercasse di “far emergere la figura dalla pietra come se la si vedesse affiorare da uno specchio d’acqua”. Il metodo descritto consisteva nel preparare un bozzetto in cera o altro materiale, per poi immergerlo in un recipiente pieno d’acqua. Nel farlo risalire era fondamentale notare quali fossero le superfici più prominenti, che sarebbero state le prime ad essere sbozzate dall’artista, procedendo progressivamente verso il retro della figura. I Prigioni della Galleria dell’Accademia sono un esempio della pratica usata da Michelangelo detta “non-finito”. Le quattro sculture non sono infatti perfettamente levigate, ma sono state lasciate volutamente in uno stadio incompleto per comunicare uno dei temi più profondi sull’imperfezione dell’essere umano. Dalle superfici sbozzate, cariche di segni lasciati da scalpello e subbia, si puo’ percepire il difficile e lungo percorso necessario per realizzare una scultura di così imponente dimensione. Traspare un senso di tensione, di movimento impresso dalle torsioni dei corpi: questa lotta esprime per Michelangelo una sorta di analogia simbolica fra la figura che tenta di fuoriuscire dal marmo e lo spirito umano che cerca di liberarsi dalla carne per anelare a Dio, unica fonte di perfezione.
Schiavo che si desta (marmo, altezza 267 cm, circa 1520-23)
Lo Schiavo che si desta è uno dei più famosi della serie, per la possente figura virile che emerge contorcendosi dal marmo. Il volto si percepisce appena, sbozzato nei lineamenti e nella barba, mentre il torso è più finito, con l’abbozzo delle braccia e delle gambe. Quella destra in particolare, piegata ad angolo, esce dal blocco con straordinaria decisione e potenza. C’è una sorta di analogia tra la posizione di questa gamba e quella del braccio dello stesso lato, che ritma il movimento. La composizione che ne scaturisce è tesa e dinamica, intonata a un senso di sforzo e tensione fisica. Da notare le varie profondità dei segni lasciati da scalpello, subbia e raschietti lungo la superficie del marmo, specialmente sul retro del blocco.
Lo Schiavo Giovane (marmo, altezza 256 cm, Circa 1530-34)
Lo Schiavo giovane ha le ginocchia leggermente piegate, nascondendo il volto con una posa articolata del braccio sinistro che corre sopra la testa. Particolarmente delineati sono i tratti del gomito sinistro, le linee dei bicipiti e dei tricipiti impiegati in questa posa plastica allungata. Il braccio destro viene invece tenuto dietro, come legato a un’invisibile catena. La figura nasconde il viso ma mostra una certa definizione nelle gambe, e nel torso soprattutto a sinistra. La parte posteriore appare invece completamente da scolpire, testimoniando l’usanza di Michelangelo di liberare la figura che considerava nascosta nel marmo iniziando a scolpire dal davanti, liberandola progressivamente procedendo verso il retro del blocco di marmo.
Lo Schiavo Barbuto (Marmo, altezza 263 cm, circa 1530-34)
Lo Schiavo barbuto è il più finito fra i prigioni fiorentini e deve il suo nome alla folta barba ricciuta. Il torso muscoloso in torsione denota un approfondito studio anatomico specialmente nel torso, tipico delle migliori opere di Michelangelo. Le gambe, leggermente piegate e divaricate, sono tenute da una fascia che corre fino ai piedi. Il braccio destro è sollevato a reggere la testa reclinata, mentre il sinistro, con la mano ancora abbozzata solo sul dorso, sembra che dovesse reggere la fascia.
Atlante (marmo, altezza 277 cm, circa 1530-34)
La statua deve il suo nome alla forma del blocco non scolpito sulla testa che sembra pesare come un masso, evocando lo sforzo del titano Atlante che sorreggeva la sfera celeste. La massa del blocco doveva in realtà contenere la testa stessa e un braccio, che qui non presentano alcuna distinzione. Le gambe sono divaricate e piegate, un braccio sospeso, e tutta la muscolatura è in tensione come nel tentativo di sollevare un gravoso peso che incombe sulle spalle. In questa posizione, più che negli altri Prigioni, è evidente il senso di energia compressa, che sembra esplodere dal marmo. Proprio lo stato non-finito è all’origine della straordinaria energia che emana la figura mentre tenta di liberarsi dalla pietra grezza, imprigionate insieme in un’eterna lotta. Tutta la superficie è resa vibrante dalle tracce dei diversi utensili usati da Michelangelo per sbozzare la pietra.
Altri Schiavi
Oltre ai quattro Prigioni di Firenze Michelangelo scolpì altri due schiavi non-finiti, lo “Schiavo ribelle” e lo “Schiavo morente”, databili intorno al 1510-13, esposti oggi al museo del Louvre a Parigi. E’ Vasari nelle “Vite” che ricostruisce perché questi due Prigioni si trovino oggi in Francia. Nel 1546 Michelangelo donò le due opere a Roberto Strozzi per la generosa accoglienza ricevuta nella sua casa romana durante le malattie del luglio 1544 e del gennaio 1546. Quando lo Strozzi fu esiliato a Lione, per la sua opposizione a Cosimo I de’ Medici, si fece inviare le due statue, poi donate al Re di Francia e collocate ad Ecouen, nei pressi di Parigi.